SE IO FOSSI UNA FUORISERIE E TU UN CAMPO DI GRANO…: NOTE ALLA SENT. 25138 DI CASSAZIONE

Una fuoriserie di grande cilindrata “corre” veloce lungo un’autostrada.

Incurante dei possibili autovelox, il maschio guidatore che è al volante, supera i duecento chilometri all’ora senza fatica.

Lui può tutto, o quasi.

Forse non è affatto vero, ma non lo sa.

Al primo casello, esce, e si dirige verso un paesino, un paesino antico, circondato da campi e terreni incolti.

Ad un tratto, ingannato dal proprio “navigatore”, si avventura verso fondi stradali sempre più sconnessi, fino a giungere in un tratto nel quale il fondo fangoso – postumi di piogge e pioggie già passate dal cielo – gli impedisce dapprima qualsiasi sprint che gli farebbe piacere vedere nella sua fuoriserie, e poi gliela blocca del tutto.

La potente fuoriserie e ora in panne: le sue ruote, nel tentativo di uscire dal fango, slittano sempre più e affondano a ogni colpo di acceleratore con cui il maschio guidatore tenta di uscire da quella che sta diventando una tragedia.

Da lontano spunta allora un trattore, una di quelle macchine dalle ruote enormi e che tanto lo fanno imbestialire quando bloccano la sua rombante fuoriserie nelle strade statali.

La loro lentezza lo esaspera sempre, e puntualmente impreca.

Ma adesso quell’attrezzo – ruote enormi, la cabina di vetro, l’andatura irrimediabilmente sicura e stabile proprio là dove lui si è impantanato, gli sembrano un miracolo. La salvezza, la fine di un incubo a venire.

Per lui è giunto il momento di interrogarsi su molti aspetti della propria auto, della propria guida, della fiducia che ripone nel navigatore, e, se proprio insiste, anche su sé stesso.

Per noi di chiederci cosa intendiamo dire quando diciamo che una macchina “corre”.

Quella che noi definiamo “correre” è infatti una qualità che attribuiamo alla macchina.

Ma siamo sicuri che sia proprio così?

In realtà noi abbiamo un cervello sostanzialmente imperfetto – o forse usiamo in modo imperfetto uno strumento meraviglioso qual è il nostro cervello – e tendiamo a cercare una tranquillità interiore e stabilizzante considerando il “mondo” come pieno di “oggetti” e attribuendo a questi “oggetti” delle qualità “oggettive” che però, ad una analisi attenta, tali non sono.

Quando noi, ad esempio, percepiamo qualcosa come “caldo” o “freddo”, quando ascoltiamo “un suono”, o vediamo “un colore”, in realtà operiamo analizzando la differenza fra la temperatura di quell’oggetto e quella del nostro corpo (basta fare la prova con dell’acqua calda e fredda, ad esempio), o le differenze fra le varie lunghezze d’onda che ci raggiungono, e via di seguito. Bastano alcune semplici prove per renderci conto di come le nostre percezioni (Bateson, Verso una Ecologia della Mente) sono percezioni di differenze.

Allo stesso modo, noi tendiamo ad attribuire agli “oggetti” (e alle persone, come vedremo), comportamenti o qualità che invece appartengono solo al “rapporto” fra l’oggetto e l’ambiente circostante.

Per noi è facile, ad esempio, a dire che la macchina “si muove”. Una macchina si muove se le ruote – mosse dal suo motore – girano su un terreno solido. Se la mettiamo su un tapis roulant, o su delle sabbie mobili, il meccanismo che sta alla base di quello che su una strada si esprime come “movimento DELLA macchina”, farebbe restare immobile, o affondare, l’auto. Questo significa che quello che percepiamo come “movimento della macchina” è una qualità, una creazione, del rapporto fra la macchina e il terreno su cui si poggia. Lo stesso si può dire di un “uomo che cammina”.

L’impulso neuromuscolare che gli fa “muovere le gambe”, e lo fa “camminare in una strada”, avrebbe tutt’altro effetto se si esprimesse sempre su un tapis roulant, o in presenza di una imbracatura che ne vincolasse gli altri movimenti. Ciò che noi osserviamo, in noi stessi, negli altri, nelle cose, non sono dunque dati oggettivi e assoluti, ma il frutto di interazioni ben precise e complesse, che il nostro cervello, per comodità, attribuisce poi agli oggetti o alle persone.

Se guardiamo un foglio bianco per diversi minuti, volgendo lo sguardo altrove i colori ci appariranno diversi da prima, Se ascoltiamo a lungo un suono costante, finiremo per ignorarlo: lo stesso avverrà se fissiamo sempre lo stesso punto.

Noi viviamo di relazioni, e percepiamo solo relazioni che poi, per comodità, attribuiamo ai singoli oggetti o persone.

Il tizio che guidava la fuoriserie ha un bel dire dunque che la “sua” macchina “corre”.

In realtà, quel movimento è solo l’espressione di una “relazione”, e solo di una relazione.

Se lui la fuoriserie la porta su un campo fangoso, hai voglia a dire che è una fuoriserie: vale meno, molto, ma molto meno, di quegli odiati trattori che gli bloccano la strada quando vorrebbe correre con qualche …velona al suo fianco.

Se noi applichiamo questo criterio alle relazioni umane, abbiamo dunque un’altra prospettiva da cui osservarle e valutarle e, soprattutto, abbiamo altre ipotesi per modificare quelle disfunzionali, quelle, ad esempio, nelle quali si rischia di ammazzarsi o farsi troppo male in tutti i sensi.

La mia impressione – entro dunque nello specifico della questione – è che la famosa sentenza di Cassazione per la quale non è colpevole di “maltrattamenti” (un reato peculiare, che prevede una condotta abitudinaria e non singoli piccoli episodi) il marito la cui moglie, sostiene la Cassazione, «per ammissione della stessa di carattere forte, non fosse intimorita dalla condotta del marito». La teoria addotta dall’uomo era dunque che i giudici che lo avevano in precedenza condannato, avevano «scambiato per sopraffazione esercitata dall’imputato» quello che poteva esser descritto come «un clima di tensione fra coniugi». Con questa sentenza, la 25138, La Cassazione – ha dato ragione al presunto colpevole, rilevando che non può esser considerata come «condotta vessatoria» l’atteggiamento aggressivo non caratterizzato da «abitualità», e questo rientra nella specificità del reato di maltrattamenti, dal momento che gli episodi «incriminati» – prosegue la Cassazione – «appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni (per i quali la moglie ha rimesso la querela), che non rendono di per sè integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione» necessaria alla configurazione del reato di maltrattamenti.

Si dice infatti che “Per la sussistenza del reato occorre una condotta di tipo abituale -una reiterazione temporalmente apprezzabile di fatti di violenza fisica e/o morale o di fatti i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica) (cfr. Cass. Sez. 6 28/2/1995 e sez. 5 1/8/1996 nella rassegna dove “richiedere abitualmente il compimento di atti sessuali contro natura alla convivente in rapporto di coppia, di cui si conosca l’indisponibilità…integra gli estremi del reato di maltrattamento perchè la ripetizione insistente delle richieste…cagiona a costei sofferenze per il disprezzo che l’uomo mostra delle sue condizioni”) – attivata da un dolo generico, omogeneo e costante, cioè da una coscienza, volontà, intenzionalità da parte dell’agente di sottoporre a vessazioni il soggetto passivo del reato, rendendo quindi doloroso il quotidiano dell’attore aggredito (cfr. Cass. sez. 3 22/4/1998 e Cass. sez. 6 2/4/1998 prescription drugs online nella rassegna).”

(http://appinter.csm.it/incontri/relaz/3156.pdf)

Importante è però anche il riferimento al “carattere forte” della moglie, che pone un ostacolo alla condanna del marito che pone in essere atti violenti.

Le esponenti delle ideologie femministe hanno protestato molto contro questa sentenza, ma in realtà essa appare coerente con quanto dicevamo sopra in relazione al concetto di “velocità”, che appare una caratteristica dell’ “oggetto” auto, ma in realtà emerge dalla relazione automobile-fondo stradale.

A nostro avviso, si tratta di una sentenza estremamente responsabilizzante, che non nega affatto la valenza della sopraffazione abitudinaria alla base del reato di maltrattamenti, ma la colloca in una dimensione che è quella della relazione e non delle caratteristiche del singolo.

Letta in un altro modo, infatti, la decisione in questione della Corte assegna al soggetto maltrattato una autonomia decisionale che la porta ad una consapevolezza del proprio ruolo. La donna “forte”, e “di carattere”, non si lascia maltrattare: ha nuna propria dignità, e impone nal compagno una distanza dalla violenza fisica e psichica oltre vla quale c’è solo la cessazione della relazione.

Il rischio della criminalizzazione del “partner” maltrattante come unica lettura della situzione, è quello, infatti, di obbligare, per così dire, la donna a rimanere un soggetto debole e passivo, quando può trovare invece – dentro di sé e fuori di sé – gli strumenti per una autonomia paritaria e assertiva, che imponga all’altro precise regole di relazione oltre le quali, appunto, c’è solo l’addio.

Ovviamente, questo vale per tutte le relazioni uomo donna, dovendosi di necessità però calibrare bene il concetto di “soggetto debole”. E’ possibile che la donna spesso si percepisca come “debole” rispetto al “partner” violento: ma il lavoro da fare non è quello di mitizzare in negativo – cioè di criminalizzare – la “violenza” e la “forza” di questi, ma di vedere su quale terreno esse si possono o no esplicare pienamente o, al contrario, quando e dove possono affondare pateticamente.

Per ritornare alla metafora iniziale, in sostanza, sarebbe opportuno che il partner “maltrattato” scoprisse di poter avere – in sé, ma anche nel mondo circostante – le possibilità per impedire lo scempio di sé che può lasciar fare qualora si senta – rimaniamo nella metafora di inizio – una strada nella quale l’altro possa scorazzare come vuole, quando vuole, e con i sistemi che preferisce.

Il nostro timore, detto con parole esplicite, è che la criminalizzazione a oltranza, e priva di altri punti di vista, del partner “maltrattante” (qualità che è di una relazione, dal nostro punto di vista, e non di una “persona” presa in sé, persona che in quanto tale non esiste o è un artificio cognitivo), consegni alle cronache molte più vittime di quante non siano necessarie e soprattutto possibili. Perché le priva delle possibilità che la coscienza di sé e dei propri possibili cambiamenti offre.

Dr. Gaetano Giordano

Medico-chirurgo

Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni

Psicoterapeuta

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